“Led Zeppelin – The Song Remains the Same” di Peter Clifton e Joe Massot

The Song Remains the Same è un film-concerto ripreso durante l’evento di tre giorni del luglio 1973 al Madison Square Garden di New York e addizionato, successivamente, di brevi filmati simil onirici riguardanti i quattro membri della band (filmati necessari a riempire alcuni buchi delle riprese stesse). Riproposto al cinema in soli tre giorni di marzo di questo 2024 alla modica cifra di 13 euro (però ti “regalano” una bella locandina per oliare la cosa). Sul concerto non ci sarebbe nulla da dire: una roba epica, musica vera, musicisti veri, pubblico vero. Insomma, tutto quello che ormai non siamo più abituati a vedere e sentire.

In 137 minuti di psichedelia si ha la fortuna di riascoltare live la scaletta composta da:
Rock and Roll
Black Dog
Since I’ve Been Loving You
No Quarter
The Song Remains the Same
The Rain Song
Dazed and Confused
Stairway to Heaven
Moby Dick
Heartbreaker
Whole Lotta Love

È subito chiaro che il rapporto tra il numero di pezzi e il minutaggio sia particolare e questo non certo per le riprese inserite extra concerto. “Dazed and Confused” raggiunge i 26 minuti di estensione, “Wholla Lotta Love” i 15, per non parlare del fantastico e infinito assolo di batteria a mani nude di Bonham su “Moby Dick”. Storia del rock, storia della musica.

Un palco minuscolo, un pubblico enorme. Cose alle quali non siamo più abituati, appunto, cose che il pubblico di oggi, assuefatto di stronzate, non è più in grado di apprezzare. La Musica protagonista – non le scenografie o altre cazzate ormai necessarie per l’intrattenimento del vuoto cosmico dei cervelli – solo la Musica. Vera, pura, semplice e super complessa allo stesso tempo. Arte allo stato puro. Un film, un concerto, che andrebbe fatto vedere nelle scuole, si sa mai che ci sia un piccolo Jimmy Page da qualche parte che stia cercando un’ispirazione, una faro, nel buio che circonda la produzione contemporanea.

Quando mi capita di assistere a eventi come questo non posso fare altro che arrabbiarmi, per le occasioni perse, per il nulla moderno, in campo musicale, ma non solo. Sarà colpa delle produzioni, sarà colpa del pubblico, di entrambi, non lo so. Siamo ormai così lontani da come dovrebbero essere le cose belle, da rendere frustrante anche solo pensarci. Hai mai visto Mick Jagger interrompere un’esibizione perché «Oh, mio Dio, non mi arriva bene benissimo l’audio in cuffia»? Riesci anche solo a immaginare un Freddie Mercury con l’autotune? E Bon Scott che ti spiega in un reel come dispone i calzini nell’armadio? Dove cazzo siamo finiti? A guardare pseudo artisti “ribelli” che si leccano in modo rigorosamente politicamente corretto?

Molta fantascienza racconta di apici tecnologici raggiunti nel passato e poi mai più superati, a causa di un imbarbarimento dovuto a un olocausto nucleare o a un evento catastrofico. A noi questo è successo nell’arte, a causa di un olocausto culturale. Dobbiamo avere la roba pronta, tutta uguale e preconfezionata così che non faccia sforzare troppo i nostri stanchi neuroni. Serie invece di film, canzoni da tre minuti e mezzo, talent che inseriscono posteriormente gli ingredienti nei presunti artisti/capponi che si esibiranno di fronte ad altrettanti fan ripieni. Se no ci stanchiamo, se no siamo costretti a pensare.

A dispetto del titolo – mi spiace contraddire Plant e Page – la canzone, la musica, è parecchio cambiata. E così succede che l’unico modo per assistere a qualcosa di realmente esaltante sia tornare nel 1973.
Cazzo, che concerto.

“Dune – Parte due” di Denis Villeneuve

Questo post è più o meno un promemoria (serve a me per sapere cosa ho visto/letto nel tempo, d’altra parte in origine il blog era nato esclusivamente per questo), non starò a parlarti di Dune – Parte due. Perché? Perché mi è sempre sembrato abbastanza ridicolo parlare dei singoli film di una saga (con lo stesso regista e lo stesso cast, peraltro) suddividendo il commento in base a quanti film sono stati prodotti. Vuoi sapere cosa penso di Dune – Parte due? Puoi leggere quello che ho scritto di Dune – Parte uno, la mia opinione non è cambiata.

Frivolezze: inizio ad apprezzare Zendaya, soprattutto dopo aver visto il trailer di Challengers di Luca Guadagnino. In Dune – Parte due compare anche Lea Seydoux, che è sempre un gran bel comparire. Sembra incredibile che Elvis/Butler possa apparire così cattivo, bella trasformazione. Ho scoperto che ci sarà un terzo film, sempre di Villeneuve, che dovrebbe anche essere l’ultimo. Preghiamo tutti gli innumerevoli dei dell’umana fantasylandia religiosa perché il livello si mantenga a questa altezza.

Unica critica possibile per questo film è che soffra un pochino delle limitazioni che hanno tutti i film di mezzo di una trilogia: non ha inizio e non ha fine, ciò lo rende forzatamente più debole tra gli eventuali tre. Un po’ come per Le due Torri de Il Signore degli Anelli, insomma.

“Se non dovessi tornare – La vita di Gary Hemming” di Enrico Camanni

Nel 1966 Gary Hemming salva due alpinisti tedeschi sulle Aiguilles du Dru, Monte Bianco. Alpinista esperto anche lui, californiano, scavalca tutta la macchina dei soccorsi e, insieme ad altri, riesce nell’impresa di riportare a casa vivi i due disperati. La stampa lo identifica da subito come eroe. Lo addita come eroe, sarebbe meglio dire. Ma Hemming è un tipo difficile, uno che non ti dice quanti anni ha, da dove viene o chi sia. È uno che una cosa così – la notorietà – lo destabilizza ancora più di quanto la società dei consumi non abbia già fatto. Cade in un vortice di problematiche esistenziali, fugge da tutti, vive giornate estremamente piene alternate ad altre di totale chiusura. Vuole scrivere un libro, ma non ci riesce: il suo editore vorrebbe fargli dire delle cose, lui ne prefisce altre che restano sui diari, escluse dal circo della carta stampata. Le sue donne – Gary ne ha almeno tre importanti – un po’ lo seguono e un po’ no, e lui si sente ancora più solo. Incompreso dal mondo, ucciso da un sistema che giustamente non sente suo, in una notte ubriaca del 1969 si spara un colpo in testa e saluta tutti, così, a 35 anni. Qualcuno crede sia impossibile, si parla anche di errore o, addirittura, di omicidio, ma la verità è che Hemming aveva già giocato alla roulette russa di fronte a un suo amico, poco tempo prima. La cosa era nell’aria. Alpinista “fragile”, dice la frase in copertina. Ci sarebbe da discutere su questo aggettivo, ma non mi soffermerei nemmeno troppo a farlo.

Non conoscevo assolutamente nulla di questa storia, ho letto il libro perché mi è stato regalato. È una vicenda cronologicamente troppo “vecchia” per me, ma in qualche modo eterna e già vista. Hemming mi ha dato l’idea di essere un Supertramp delle montagne, un altro uomo nato in un mondo sbagliato, dove – appunto – l’impossibilità di allinearsi ai “valori” canonici DEVE essere interpretata come fragilità, per non mettere in discussione proprio quei valori, che di “valore” hanno poco.

Se non dovessi tornare non mi ha entusiasmato eccessivamente nello stile, ma Hemming sì. Hemming è venuto fuori dalle pagine, come se avesse una potenza tale da sovrastare lo scrittore o il mezzo mediatico di turno. Altro che “fragile”…
So che esiste un’altra e più nota biografia di Hemming, scritta da Mirella Tenderini. A questo punto credo valga la pena recuperarla.

“Z – La città perduta” di David Grann

C’è stato un tempo in cui l’avventura era Avventura e l’esplorazione era Esplorazione. Un tempo senza satelliti, GPS, elettronica o tecnologia avanzata. Un tempo nel quale chi partiva non sapeva se si sarebbe trovato ad affrontare una montagna, un lago o una pianura. Questo è stato il tempo di Percy Harrison Fawcett, uno degli ultimi veri esploratori della nostra storia, scomparso nel 1925 in Amazzonia e mai più ritrovato (nonostante i tentativi perpetuati fino a, praticamente, i giorni nostri). L’ultimo Indiana Jones, verrebbe da dire, inviato per conto di Sua Maestà e della Royal Geographical Society a ritracciare parte dei confini del Sud America, in una terra misteriosa e terribilmente ostile. Ossessionato dall’idea di trovare la città di El Dorado, Fawcett è tornato in Amazzonia più volte, fino all’ultima, fatale, insieme al figlio ventiduenne Jack, quando sono stati inghiottiti dalla giungla e nessuno ha più saputo nulla di loro (teorie disparate a parte).

Ho scoperto  Z – La città perduta dopo aver visto il film Civiltà perduta di James Gray, ispirato proprio al libro del giornalista David Grann. Grann, peraltro, al momento è particolarmente famoso poiché l’ultimo film di Scorsese, The killers of the flower moon, è tratto da un altra sua opera d’inchiesta. Il giornalista ha ripercorso il tragitto di Fawcett in Amazzonia e, nel frattempo, ha sapientemente ricostruito la vita dell’esploratore recuperando diari e scritti sparsi per il mondo, tra i parenti di Fawcett e le biblioteche. Il libro alterna le due avventure in modo avvincente, senza mai annoiare. Uno dei figli di Fawcett, anni dopo la scomparsa del padre, ha anche pubblicato una sorta di diario dell’esploratore, intitolato Exploration Fawcett, che cercherò di trovare.

Come ti dico sempre, c’è qualcosa che mi affascina e mi calamita in queste storie di sopravvivenza e morte, non so come mai. È interessante perché ho scoperto che Corbaccio ha tutta una collana (Exploits) dedicata a questo genere e peraltro un paio di titoli di Karkauer, Nelle terre estreme e Aria sottile, li ho già letti. Voglio recuperare anche Endurance di Lansing, quindi presto ne riparleremo. In realtà li recupereri tutti, ma si parla di oltre 170 titoli.

Fawcett era una sorta di precursore destinato a fallire, probabilmente non sarebbe riuscito a trovare l’El Dorado nemmeno passandoci sopra, poiché in Amazzonia tutto è estremamente deperibile e i resti di una civiltà di secoli prima sono/sarebbero andati distrutti. Eppure, stando alle ricerche di Grann (e non solo), Fawcett non aveva sbagliato le sue teorie. Nel mezzo del verde, qualcosa di grosso pare esserci stato, prima che gli Indios venissero sterminati dal “civilizzato” uomo europeo e dalle sue malattie.

C’è qualcosa in Percy Fawcett che lo rende unico. Qualcosa che rende la sua vita degna di essere vissuta, più di quella di molti altri che calpestano, o hanno calpestato, inutilmente, questo nostro pianeta. Sarà l’ossessione, sarà il sogno, sarà l’eterna ricerca. La sua fine è avvolta nel mistero, ma la sua esistenza ha di certo avuto un significato.

 

Libri sul genere storie vere/sopravvivenza estrema che ti consiglio perché mi sono piaciuti molto (ecco perché non c’è Walden di Thoreau nell’elenco):

12 anni schiavo di Solomon Northup (1853)
La verità sul Titanic di Archibald Gracie (1913)
Papillon di Henri Charrière (1969)
Tabù di Piers Paul Read (1974)
Verso il Polo con Armaduk di Ambrogio Fogar (1983)
Nelle terre estreme di Jon Krakauer (1996)
Aria sottile di Jon Krakauer (1997)
127 ore di Aron Ralston (2004)
Z – La città perduta di David Grann (2005)
Wild di Cheryl Strayed (2012)
Fuga dal Campo 14 di Blaine Harden (2012)

“Birrologia – Comprendere la birra in 100 disegni e schemi” di Pierre / Pham / Denturck

Prosegue la mia istruzione birraria che, per forza di cose, non può limitarsi al solo uso e consumo, anche se sarebbe comunque piacevole. Dopo il corso di degustazione e dopo Birra – Manuale per aspiranti intenditori (del quale ti ho già parlato) mi sono dedicato a questo Birrologia – Comprendere la birra in 100 disegni e schemi scritto e illustrato dalle tre autrici Élisabeth Pierre, Anne-Laure Pham e Mélody Denturck (disegni).

È una guida/manuale molto interessante, che si presta ad essere aperto a una pagina a caso, senza per forza vincolarsi a una fruizione canonica. Potrei tranquillamente definirlo un bigino, nel senso che gli schemi dei quali si parla nel sottotitolo fungono proprio da riassunto per le conoscenze accumulate nel tempo. I 51 capitoli hanno titoli di falsi luoghi comuni a proposito della birra e da questi si parte per spiegare la realtà dei fatti.

I disegni sono divertenti e semplici, aiutano a memorizzare i concetti. Io comunque non memorizzo molto, ma questo è un problema mio… Te lo consiglio se hai già un pochino di cultura a riguardo, altrimenti ti suggerirei di passare prima dal Manuale che ho linkato più sopra che “te la racconta” in modo più discorsivo. Sicuramente un libro che riprenderò in mano anche solo per ri-chiarirmi le idee su quelle cose che faticano a entrarmi nel cervello.

 

Una nota extra-lettura parlando di luoghi comuni: le autrici sono “di parte” (e fanno bene perché la birra è buona), ma ricordati che l’alcool fa male. Questo non lo dico come fosse un disclaimer a fine post, lo dico perché lo dice la scienza. Gli esseri umani, gli italiani in particolare, tendono a voler giustificare le proprie scelte con delle cazzate. Un po’ come quella del bicchiere di vino al giorno che fa bene. Una cazzata, appunto. Una sigaretta al mese difficilmente ti ucciderà, ma le probabilità di morire sono comunque minori se non la fumi. L’alcool è cancerogeno, sempre, senza scappatoie. Io lo bevo, non sempre moderatamente, ma ne accetto i rischi. Le ipocricisie e le incoerenze lasciamole ai deboli e agli idioti e assumiamoci le responsabilità delle nostre scelte, è una cosa che ci rende persone migliori (e più intelligenti). L’alcool fa anche ingrassare, se non ti ammazzi di allenamento come faccio io. Il grasso, sebbene in tv vada molto di moda l’accettazione dell’obesità, non è migliore di una sigaretta (che in tv, invece, non si vede quasi più). Le persone obese soffrono molto di più di problemi cardiovascolari (che sono la principale causa di morte insieme ai tumori). In questa continua sagra del perbenismo che pubblicizza la diseducativa accettazione del corpo in ogni sua volontaria deformazione, ricordiamoci anche questo.

“L’economista sul tapis roulant” di Luciano Canova

In ordine di stampa, L’economista sul tapis roulant di Luciano Canova è il testo più recente (2023) tra quelli che ho letto per la mia educazione finanziaria. Un libro giusto al momento giusto, poiché mi ha permesso di ripassare concetti già acquisiti (e in parte, ahimè, dimenticati) e di rispolverare formule e teorie che avevo affrontato in altri volumi. Repetita iuvant, nel mio caso in modo particolare perché ho la memoria corta.

Visto che fino ad ora ho distinto tra testi motivazionali, formativi e ibridi, ti chiarisco subito che quello di Canova è un testo al 100% formativo, senza nessuna sfumatura o sconfinamento. Ci voleva, come ho già detto, per fissare (si spera) le idee. Le solite cose, insomma, come il PIL, l’inflazione, il sistema pensionistico, gli attualissimi tassi, lo spread, la politica monetaria, eccettera, eccetera, eccetera. Canova struttura la lezione come se si trattasse di un allenamento e spiega l’economia in modo molto, molto semplice. Il tema non è certo leggero, ma lo è la lettura (in senso positivo), l’autore ha la capacità di semplicificare argomenti complessi e di cacciarli nella testa di chi legge (cioè io) grazie all’utilizzo di metafore ed esempi pratici. Il tono è leggermente ironico e divertito, questo aiuta a rendere la pillola più dolce (e ti è andata bene che io abbia scelto la pillola).

Sì, è stato un ottimo ripasso, ma L’economista sul tapis roulant potrebbe però anche essere il primo libro con il quale avvicinarsi al mondo dell’economia, proprio per le caratteristiche di semplicità e leggerezza di cui ti parlavo. La divisione in capitoli/argomenti consente, volendo, anche una lettura non ordinata, anche se io amo procedere sempre in modo canonico. Se mai dovesse venirmi un dubbio su un singolo tema, questo è uno di quei libri che riprenderei in mano volentieri per ri-chiarirmi le idee.

Vedo che Canova ha scritto molti altri libri a tema Economia, e non solo, me lo segno per ulteriori ripassi futuri.

 

Libri che ho letto per accrescere le competenze finanziarie:
Padre ricco padre povero di Robert T. Kiyosaki (1997)
Capire l’economia for dummies di Roberto Fini (2014)
Il metodo Warren Buffett di Robert G. Hagstrom (1994 aggiornato 2014)
Il piccolo libro dell’investimento di John C. Bogle (2017)
Diventare milionario con uno stipendio normale di Andrew Hallam (2018)
Investire for dummies di Massimo Intropido (2020)
La psicologia dei soldi di Morgan Housel (2020)
L’economista sul tapis roulant di Luciano Canova (2023)

“Corto Maltese: Una ballata del mare salato – Favola di Venezia” di Hugo Pratt

Ho affrontato questo volume de I Classici del fumetto di Repubblica da ignorante totale, senza alcuna conoscenza pregressa su Hugo Pratt o sulle sue opere. Certo, conoscevo il personaggio di Corto Maltese, come icona e come immagine, ma non avevo mai letto nessuna sua avventura. Il volume contiene due storie: Una ballata del mare salato – in assoluto la più nota di Corto Maltese – e la breve Favola di Venezia.

Non sto qui a raccontarti le trame per filo e per segno, trattandosi di fumetti si leggono molto velocemente e ti rovinerei solo il divertimento. Ti dico solo che la prima storia parla di intrighi pirateschi e militari su un’isola misteriosa e la seconda ha un cartattere molto più onirico e racconta di una caccia al tesoro ambientata a Venezia.

Cosa penso? Penso che non leggerò altre storie di Corto Maltese, non mi ha catturato. È spesso poco realistico (i personaggi cercano di uccidersi in una pagina e si dichiarano amici nella successiva), per nulla introspettivo, troppo verboso e, in generale, desideroso di spalmare erudizione (il fumetto in generale, non il personaggio). Mi sono fermato parecchie volte per la noia, Favola di Venezia è stata poi del tutto intollerabile, un po’ perché io non sopporto i racconti onirici e un po’ per le caratteristiche che ho elencato sopra.

Eppure c’è indubbiamente qualcosa in Corto Maltese. Qualcosa che, appunto, l’ha reso un’icona, un simbolo. Questa sua mancanza di personalità, di profondità, lascia spazio a momenti di assoluta poesia. Singole immagini che, estrapolate dal contesto, diventano eterne e adattabili a qualsiasi situazione. Si potrebbe leggere una tavola a caso e trovarci qualcosa di grandioso, anche senza sapere nulla della storia dalla quale è tratta. È come se, ogni tanto, degli haiku incontrassero dei piccoli quadri. Una specie di magia.

Sì, ha qualcosa. Ha qualcosa.

“Holly” di Stephen King

Dopo la trilogia di Mr. Mercedes e il romanzo The Outsider, ecco il tanto promesso (minacciato?) mattoncino dedicato interamente a Holly Gibney: Holly, appunto. Personaggio secondario – ma nemmeno troppo – delle opere sopraccitate, la non-più-giovane non-eroina complessata e psicologicamente problematica Holly si trova, questa volta, ad avere a che fare con una coppia di anziani cannibali.
No, non ho spoilerato, tranquillizzati.
In Holly, come in una qualsiasi puntata di Colombo, si sa benissimo chi è l’assassino e chi ha ucciso. Anzi, il romanzo è costruito su due linee temporali diverse che man mano si avvicinano: in una segui le indagini di Holly, che cerca di scoprire dove sia sparita una giovane ragazza, nell’altra mangi proprio insieme ai due vecchiacci serial killer dal palato fino (che peraltro si spalmano anche del grasso umano per guarire dall’artrite).

Come puoi forse intuire, io non sono mai stato un grande fan della Gibney, perché la trovo, oltre che insopportabile, anche poco credibile come personaggio. Le sue insicurezze e il suo passato la renderebbero, nel mondo reale, una vittima certa degli eventi (e dei cannibali) e fatico molto a immaginarla a risolvere casi e a scontrarsi con temibili nemici. Ma la narrativa, si sa, come il Cinema e la tv, viaggia ormai verso orizzonti differenti e più possibilisti, per la gioia degli eterni ottimisti. Su questa polemica mi fermo qui.
Eppure devo dire che Holly è volato, ho letto 500 pagine in circa una settimana. Sono rimasto piacevolmente sorpreso, ero curioso di capire come sarebbe andata avanti, pur avendone già una mezza idea. Sì, proprio come in una puntata di Colombo.

Stephen King si conferma – come se ce ne fosse bisogno – anche un grande autore di thriller polizieschi. Holly è di certo molto meglio di The Outsider, risultando più completo e meno frettoloso. Intrattenimento puro che non rimarrà tra i grandi titoli del Re, ma comunque assolutamente godibile.

Ecco, c’è un MA, un grande, enorme, colossale MA.
Premessa: sono tendenzialmente a-politico e sicuramente pro-vax e pro-scienza (quella vera, non quella del blog di Gigino che ha letto cose e quindi ne sa a pacchi).
In tutto il libro è presente una costante e ripetuta campagna contro Trump e a favore dei vaccini. Non solo, pare che tutti i personaggi siano incasellati molto schematicamente da una parte o dall’altra riguardo a queste questioni (quelli buoni sono sempre da una parte e quelli cattivi sono sempre dall’altra). La situazione è talmente paradossale che lo stesso King, nelle note in fondo al volume, si è sentito in dovere di specificare che il suo non sia stato un intento moraleggiante, quanto piuttosto un’esigenza di coerenza letteraria con il personaggio di Holly, germofobica e contraria alla politica di Trump.
Insomma… a me un po’ ha rotto.
Non perché non fossi d’accordo con le idee di Holly/King a riguardo – perché la penso come loro – quanto perché le persone non sono bianche o grigie. È vero che è più facile statisticamente che un cretino sia da una parte piuttosto che dall’altra, ma non è una linea di demarcazione sempre così evidente, perché le teste di cazzo, e i cattivi, sono da entrambe le parti. I cattivi, probabilmente, anche più dei cretini. In questo King, questa volta, mi ha un po’ dato l’impressione di essere un vecchio con il megafono, uno che può reiteratamente esibire la propria idea. Era “buona la prima”, gli altri ciak non erano necessari…

Ora attendo il 21 maggio e You Like It Darker.
Racconti.
Racconti!
RACCONTI!
Era ora, sia lodato il Re!

Ho letto quasi tutti i libri di Stephen King (ne ho lasciati indietro tre, per dopo), ma quelli di cui ti ho parlato sul blog sono questi:
Blaze (2007, come Richard Bachman)
Duma Key (2008)
Revival (2014)
Mr. Mercedes (2014)
Chi perde paga (2015)
Il bazar dei brutti sogni (2015)
Fine turno (2016)
La scatola dei bottoni di Gwendy (2017, con Richard Chizmar)
Sleeping Beauties (2017, con Owen King)
The Outsider (2018)
Elevation (2018)
L’istituto (2019)
Se scorre il sangue (2020)
Later (2021)
Guns – Contro le armi (2021)
Billy Summers (2021)
L’ultima missione di Gwendy (2022, con Richard Chizmar)
Fairy Tale (2022)
Holly (2023)

I fumetti (sempre solo quelli dii cui ti ho parlato sul blog):
Creepshow (1982)
The Stand / L’ombra dello scorpione (2010-2016)
Sleeping Beauties (2023)

I saggi su King (idem, vedi sopra):
Stephen King sul grande e piccolo schermo di Ian Nathan (2019)
Il grande libro di Stephen King di George Beahm (2021)

“La psicologia dei soldi” di Morgan Housel

La psicologia dei soldi di Morgan Housel si posiziona a metà tra libri più motivazionali – vedi Padre ricco padre povero – e opere più pratiche – tipo Diventare milionario con uno stipendio normale. Inizio ad avere una certa difficoltà nel valutare questo tipo di volumi perchè, se è vero che non mi forniscono molte informazioni in più di quelle che già possiedo, è altrettanto vero che sono assolutamente adatti per “motivare”, appunto, il lettore – in questo caso io – nella costante attenzione agli investimenti (specie se il contesto e le frequentazioni non aiutano). In pratica, se da punto di vista dell’erudizione sull’argomento finanziario Housel prende a malapena la sufficienza, si merita invece un dieci e lode per la capacità di indurre il lettore – sempre io – all’ottimismo economico e alla propensione all’investimento, di qualsiai tipo esso sia.

I capitoli sono 20, così come più o meno i macro-consigli che Housel fornisce per affrontare la vita da investitore e, qualche volta, la vita in genere. Non consigli economici quindi, ma consigli utili per riuscire a dormire bene la notte in base alle proprie aspettative. Già, perché poiché ognuno è diverso, non esiste una regola unica o un solo stile per “fare bene”, ma esiste un solo modo per fare stare bene te, in particolare.

Come sempre, viene data grande importanza al tema del risparmio, unico grande alleato (insieme al tempo, ovviamente) per aver successo con l’interesse composto. Housel fa poi tutto un discorso più che condivisibile (perlomeno da me, tanto che potrei averlo scritto io) sull’assurdità della gara a mostrare la propria coda da pavone al vicino di casa. In pratica è un discorso sull’assurdità del consumismo come misura del successo personale.
L’obiettivo di Housel – così come il mio – è sempre quello di ottenere l’indipendenza intesa come possibilità di disporre del proprio tempo (per capirci, lavorare 10 ore al giorno NON È disporre del proprio tempo). Il tempo, che è l’unico indice dagli impagabili dividendi e dovrebbe essere il solo metro di successo della vita, in una società sana composta da individui sani.

Ti consiglio questo libro? Sì, è una di quelle letture da intervallare alle altre più formative, in senso stretto. Spero di trovarne altre, magari prenderò qualcosa di Nassim Taleb, ne ho sentito parlare molto. Suggerimenti benvenuti, as usual.

P.S. C’è un ultimo capitolo, che suona un po’ come una bonus track, nel quale Housel spiega come l’economia americana sia arrivata al punto odierno, e lo fa partendo dalla seconda guerra mondiale. Osservando le cose dall’alto e senza entrare nei particolari, l’autore offre una spiegazione più che convincente ai motivi che hanno generato l’attuale situazione del costante debito in favore del consumismo più sfrenato. È interessante.

Libri che ho letto per accrescere le competenze finanziarie:
Padre ricco padre povero di Robert T. Kiyosaki (1997)
Capire l’economia for dummies di Roberto Fini (2014)
Il metodo Warren Buffett di Robert G. Hagstrom (1994 aggiornato 2014)
Il piccolo libro dell’investimento di John C. Bogle (2017)
Diventare milionario con uno stipendio normale di Andrew Hallam (2018)
Investire for dummies di Massimo Intropido (2020)
La psicologia dei soldi di Morgan Housel (2020)

“Crash” di J.G. Ballard

Scrivere di pornografia violenta il giorno di Natale non può che avere comunque qualcosa di soddisfacente. Detto questo, Crash di J.G. Ballard non mi è piaciuto.
Romanzo pubblicato nel 1973 – e letto ampiamente fuori tempo per poter gioire del suo probabile effetto scandalizzante – Crash racconta le vicende di Ballard come testimone della vita di un certo Vaughan, uomo affetto da una forte perversione sessuale che lo porta ad associare (fondere?) il sesso con l’automobile e, in particolare, il sesso con gli incidenti e le menomazioni derivanti dall’utilizzo dell’automobile.
Libro spinto, molto spinto, non adatto ai palati raffinati – forse – che non cerca di nascondere il suo intento di critica allo snaturamento umano. Tutto molto condivisibile, nulla da dire, ma ripetitivo all’inverosimile e alla costante ricerca dell’eccesso. Un eccesso che in me non ha trovato radici, perlomeno quelle dello scandalo, perché non credo ci sia più nulla in grado di scandalizzarmi. Di certo, non la pornografia, sebbene mischiata alla malattia mentale psicopatologica.
Ballard utilizza lo stile di scrittura che sarà poi riconoscibile in autori successivi, uno su tutti Palahniuk, ma non riesce a tenere viva l’attenzione, perlomeno la mia. Sterminati elenchi di gesti erotici e di parti meccaniche protratti per pagine e pagine mi hanno costretto in alcuni tratti a una lettura obliqua, avevo proprio voglia di venirne fuori, insomma.
È un porno freddo, “inospitale”, scarsamente arrapante e, in fin dei conti, noioso.
Intento morale ottimo che, ripeto, condivido, ma narrativamente inaccettabile. Ani, vagine e cazzi non sono più sufficienti a tenere desta la mia attenzione, questo è un fatto. Il livello di perversione a cui ambisco per non cedere alla noia è di gran lungo più elevato e, magari, più malato.
Cercherò il film del 1996 di Cronenberg (indubbiamente la trama è carne per i suoi occhi) con James Spader, mi piacerebbe davvero sapere cosa sia riuscito a tirarne fuori. Alla prossima.

La vita, l'universo e tutto quanto.